In mostra al padiglione italia della Biennale 2012 le architetture delle aziende italiane. Progetti architettonici d’eccellenza, così come d’eccellenza sono i loro prodotti.
di Stefania Piccioni
La XIII Mostra Internazionale di Architettura, diretta da David Chipperfield e intitolata Common Ground, si è chiusa domenica 25 novembre 2012 richiamando 178mila visitatori, 4,7% in più rispetto all’edizione precedente, e con un 48% di giovani e studenti. Grande successo ha riscosso il Padiglione Italia curato da Luca Zevi e intitolato Le Quattro Stagioni. Nell’intervista Luca Zevi spiega la doppia valenza del bosco – benedizione e maledizione – e offre una traccia di percorso lungo la promenade che unisce una stagione all’altra.
Il Padiglione Italia racconta le “quattro stagioni” dell’architettura del made in Italy, attraverso un percorso espositivo che si apre con un’ampia sezione dedicata all’imprenditore Adriano Olivetti, cui è attribuita la prima stagione, intitolata Adriano Olivetti nostalgia di futuro. La seconda – L’assalto al territorio – tematizza il degrado del territorio italiano a partire dagli anni Ottanta. La terza – Architetture del Made in Italy – illustra la ripresa dello spirito olivettiano da parte di un numero consistente di piccole e medie imprese e la riscoperta dell’architettura come insegna e risorsa del made in Italy. La quarta è dedicata allo sviluppo auspicabile di un’architettura ecologica, espressione di una Green economy.
La concezione della sua mostra è legata strettamente alla dimensione produttiva. La produzione appare come una sorta di Common Ground fra economia e architettura. Perché ha fatto questa scelta?
Viviamo un’epoca molto particolare della nostra storia, nella quale un ciclo di sviluppo trentennale è entrato in crisi. C’è grande confusione su come si possa andare avanti e il Padiglione Italia ha provato a contribuire a dare una risposta, dal punto di vista dell’architettura, alla domanda: chi manda avanti oggi l’Italia?
E ha trovato delle imprese che si interessano di architettura?
Abbiamo scoperto che c’è un numero altissimo di piccole e medie imprese insediate prevalentemente fuori dalle città, legate a un contesto di piccoli centri urbani anche storici, con produzione agricola florida, con una dimensione comunitaria in qualche modo persistente. Pur nel quadro di una crisi che colpisce anche loro, continuano a “mandare avanti la baracca”. Fra queste ve ne sono numerose che hanno assunto un ruolo di leadership a livello nazionale e internazionale e, proprio per questo, hanno avvertito la necessità di rappresentarsi attraverso l’architettura, di costruire i propri stabilimenti e i propri centri direzionali secondo progetti architettonici d’eccellenza, così come d’eccellenza sono i loro prodotti.
… aziende di “tipologia olivettiana”?
Infatti. Questa storia che ci ha ricondotto a qualcosa, ci ha ricordato un certo Adriano Olivetti, che viveva in una città media, aveva realizzato uno stabilimento di media dimensione e di grande qualità, offrendo agli operai residenze dignitose e servizi adeguati in un insediamento a misura d’uomo al punto che oggi l’Ivrea di Adriano Olivetti è candidata a diventare sito Unesco, patrimonio dell’umanità.
Questa è la radice della modernità in Italia, la prima stagione del made in Italy. Adriano proponeva un processo di modernizzazione profondamente legato alla storia e all’antropologia italiana. All’indomani della sua scomparsa prematura nel 1960, è stato completamente rimosso e trattato come un residuo dell’Ottocento da quelli – ed erano quasi tutti – che puntavano all’industrializzazione pesante e alla metropoli.
L’egemonia della famiglia Agnelli, in questo senso, è stata l’opposto del progetto olivettiano. Però proprio perché Adriano, essendo imprenditore, conosceva l’antropologia dell’imprenditore italiano – fortemente individualista, costantemente presente in fabbrica, legato alla comunità di appartenenza – aveva elaborato una proposta di sviluppo della società italiana ispirata proprio a quel soggetto. E quel soggetto – in barba a qualunque pensiero politico, economico e culturale egemone – alla fine ha vinto comunque, se è vero com’è vero che il tessuto produttivo italiano è oggi costituito soprattutto da una miriade di piccole e medie imprese specializzate, che offrono prodotti di eccellenza made in Italy.
Ma la qualità architettonica è diminuita…
A partire dagli anni Ottanta, nel fervore imprenditoriale diffuso seguito alla scomparsa delle grandi industrie dal nostro Paese, si verifica una sorta di “assalto” al territorio italiano da parte di aziende di grande vitalità sotto il profilo produttivo, ma disinteressate a qualsivoglia forma di espressione architettonica o di inserimento appropriato nel paesaggio: è la fase della produzione “nel sottoscala o nel capannone, spesso conditi da una villetta in stile chalet svizzero”, il “grado zero” dell’architettura del made in Italy.
Ci sono segnali di un’inversione di tendenza?
Negli ultimi quindici anni alcune imprese del made in Italy – caratterizzate da una “tipologia olivettiana” quanto a dimensioni e produzione specializzata – hanno scelto di costruire i propri stabilimenti e i propri centri direzionali secondo un progetto architettonico d’eccellenza. Sono nate così strutture attente alla poetica dei luoghi e degli oggetti, alla vita delle persone, alla sensibilità ambientale, documentate e “narrate” nella mostra. Un “fare impresa” virtuoso anche nell’immaginazione dei luoghi di produzione e commercializzazione sta contribuendo a creare nuovi paesaggi.
Alla luce di queste esperienze noi diciamo agli imprenditori italiani: dovete diventare una specie di “Olivetti collettivo”, una rete virtuosa mirata a rimettere al centro il lavoro anziché la finanza, un lavoro creativo e sostenibile. Quella è la proposta che avanziamo dal nostro particolare punto di vista, convinti che in una quarta stagione all’insegna della qualità, come quella che auspichiamo, l’architettura ricoprirà un ruolo molto importante. Si tratta di un richiamo alla responsabilità, ma anche di una prospettiva di uscita dalla crisi nella quale versa anche la gran parte delle imprese del made in Italy. Una crisi dalla quale si può uscire attraverso la coltivazione delle nostre risorse migliori, e dunque grazie alla qualità produttiva e ambientale. È una prospettiva che abbiamo lanciato attraverso il Padiglione Italia, verso la quale intendiamo continuare a lavorare, senza ignorare le difficoltà e le resistenze che incontreremo sul cammino.
E qual è il ruolo del paesaggio, cui è dedicato gran parte dello spazio espositivo?
Il paesaggio italiano – celebre in tutto il mondo – è interamente architettonico, ovvero progettato, accudito e modificato dall’uomo nel corso dei secoli. Non è natura – nel senso primordiale del termine – ma progetto, non meno delle nostre città storiche. A plasmarlo non sono stati architetti e operai, ma generazioni di contadini. Anche il settore agricolo, baluardo del made in Italy, può conoscere dunque un forte sviluppo, riconquistando il terreno perduto a seguito della migrazione dalle campagne verso le città.
Vuole dire che la massiccia ripresa del bosco sul territorio italiano non rappresenta una vittoria della natura, ma piuttosto l’abbandono di una grande civiltà contadina?
Il bosco rappresenta l’infanzia del paesaggio italiano, ma anche una minaccia al mondo agricolo. C’è stato un abbondono dell’agricoltura e una crescita parallela del bosco. Il bosco si diffonde nei territori già agricoli, non certo nelle città. È un peccato, proprio nel momento in cui la nostra agricoltura – l’agricoltura made in Italy, con il suo sistema complesso rappresentato dalla compresenza ovunque di tante coltivazioni diverse, dalla rotazione delle culture che ha continuato ad arricchire una terra pur intensamente utilizzata – diviene un modello produttivo a livello internazionale. Non è meno importante della moda o del design. Dunque la quarta stagione all’insegna della Green economy, che auspichiamo, altro non rappresenta, per dirla con Aldo Bonomi, che “un capitalismo che ha incorporato il senso del limite nel proprio processo di accumulazione”.
Pensa che l’industria stia imboccando questa strada?
Alcuni imprenditori hanno cominciato a capire che il massacro del territorio alla lunga non rende, perché i costi di recupero, successivi alla fase di rapida accumulazione, sono molto ingenti, tanto in campo industriale quanto agricolo. È difficile ricostruire sul degrado lasciato dalla stagione dell’assalto al territorio.
E ritiene che l’ecologia sia anche la ricetta per superare la crisi dell’architettura?
Che l’architettura debba avere un approccio ecologico è considerazione scontata, necessità. Se vi sarà la quarta stagione, si avrà fatalmente una presenza molto forte dell’architettura, perché nel termine riqualificazione è contenuto il termine di qualità, per accedere alla quale è fatale il ruolo dell’architettura. Però anche noi architetti dobbiamo trovare un nuovo territorio per l’architettura. Se l’Italia si avvia nella direzione di una ripresa qualificata, ci sarà lavoro per noi architetti. Ma anche noi dobbiamo avere la capacità di interpretare le esigenze di questa nuova stagione. Non basta lamentarsi di non avere lavoro, bisogna dimostrare di essere necessari. Ci sono bravi architetti che hanno saputo convincere i loro clienti imprenditori della necessità di investire in architettura, come dimostrano gli stabilimenti e i centri direzionali che abbiamo documentato nella mostra al Padiglione Italia. Dobbiamo essere capaci di allargare questa domanda di architettura, anche per superare la crisi che attraversa il nostro settore in questo momento.
Biografia
Luca Zevi, architetto e urbanista, ha lavorato alla rivitalizzazione di vari centri storici italiani e al restauro di edifici antichi. A Roma ha realizzato il Memoriale ai caduti del bombardamento di San Lorenzo del 1943 ed è progettista del Museo nazionale della Shoah. Per il Comune di Roma ha inoltre messo a punto una metodologia di recupero urbano mirata a una “città a misura dei bambini”. Per il Ministero degli Esteri ha contribuito a progetti di sviluppo in Albania e in El Salvador. Ha diretto il Manuale del Restauro Architettonico (2001) e il Nuovissimo Manuale dell’Architetto (2003). Ha insegnato nelle Università di Roma e Reggio Calabria. Nel 2012 è stato nominato direttore del Padiglione Italia alla XIII Mostra Internazionale di Architettura – La Biennale di Venezia.