Giovanni Bellaviti apre uno studio di architettura a Parigi insieme al collega Dino Constantin Coursaris. Le molte affinità di un napoletano e un cipriota-londinese cresciuti negli anni settanta e ottanta.
di Luigi Prestinenza Puglisi
Giovanni Bellaviti, campano di origine, vive e lavora da tempo in Francia, dove ha aperto uno studio insieme all’architetto cipriota Dino Coursaris. Sono andato a trovarlo nel suo studio di Parigi, in una delle strade più suggestive della città, per parlare dei suoi progetti.
Giovanni tu sei italiano. Come mai vivi e lavori in Francia?
Vent’anni fa lavoravo da tre anni a Roma per Fuksas e da un giorno all’altro mi si era presentata la possibilità di andare nello studio di Parigi. Ero giovane e, particolare non secondario, la mia fidanzata dell’epoca – che poi è rimasta quella attuale – aveva deciso di trasferirsi in Francia perché in Italia non riusciva a trovare lavoro e per me quest’era un‘occasione per seguirla.
Dopo Fuksas… hai deciso di metterti in proprio. Qual è stata l’occasione?
Anche in questo caso le cose si sono fatte molto velocemente. Dopo quasi nove anni, ero molto stanco e avevo perso un po’ il gusto e il piacere per quello che facevo. Pensavo di prendere una pausa e poi eventualmente ritornare in Italia o cercare lavoro in qualche altro studio. Non avevo mai pensato di mettermi in proprio né tantomeno di farlo in un paese straniero. Figlio di un impiegato, non sapevo cosa significasse esattamente mettersi in proprio. Mi ricordo che mia madre, quando avevo lo studio già avviato, era sconvolta dal fatto che non sapessi dirle quanto guadagnavo al mese e che non avessi un orario fisso di lavoro. Quando lavori per un grande studio il problema di trovare lavoro non esiste, c’è tutta una faccia nascosta della professione che ignori completamente.
Due soci di differenti nazionalità che lavorano in un paese che non è quello proprio. è difficile mettere insieme tre culture diverse?
Non penso che si possa parlare veramente di culture diverse. Dino è stato capo progetto nello studio di Dominique Perrault per dieci anni ed è una delle prime persone che ho conosciuto quando sono arrivato a Parigi. I casi della vita hanno voluto che ci trovassimo senza lavoro a un’età e in un periodo della nostra vita piuttosto simili: “reduci” da un’esperienza professionale fantastica ma ormai coscienti che una pagina della nostra vita si era conclusa. Ai giorni nostri non avete idea di quante cose in comune possano avere un napoletano e un cipriota-londinese cresciuti negli anni settanta e ottanta – tutta la cultura urbana e “new wave” di quegli anni, l’arte contemporanea, il calcio e persino i telefilm della domenica pomeriggio. Per quanto riguarda la terza componente del triangolo, come diceva Jean Cocteau “i francesi sono degli italiani di cattivo umore”.
Committenti pubblici o privati?
Soprattutto pubblici. In Francia nell’opinione pubblica e soprattutto nelle élite (sindaci, politici, intellettuali…) esiste ancora un grande rispetto per la “creazione”. Non è un caso che nel linguaggio corrente l’architetto sia il maître d’oeuvre, il maestro dell’opera, laddove la parola oeuvre indica il prodotto di un atto di creazione.
Mentre il cliente è il maître d’ouvrage, il maestro del manufatto, dove la parola ouvrage indica il prodotto inteso nella sua materialità.
In Francia l’architettura è dunque importante?
L’architettura fa parte di un processo di produzione. Qui si dice che quando la costruzione va bene, va bene tutta l’economia. Le imprese di costruzioni principali, quali Bouygues, Vinci, Eiffage, o le industrie di materiali edilizi fanno parte delle più importanti industrie del Paese.
Tutto questo senza parlare della miriade di piccole e medie imprese locali che gravitano intorno al mondo della costruzione. Per i politici investire nelle infrastrutture è, dunque, un modo per sostenere l’economia del Paese. Qui un sindaco che non costruisce scuole, asili, palestre, ospedali, che non si occupa dei problemi della comunità, è destinato ad avere vita breve. Il controllo sociale dei cittadini e la loro capacità di indignazione sono ancora molto presenti.
La gran parte del vostro lavoro deriva da concorsi. Come funziona il meccanismo concorsuale in Francia?
Quando l’importo dei lavori è superiore a circa 1.500.000 euro, il ricorso a un concorso a partecipazione ristretta è obbligatorio.
Il concorso si svolge in due fasi. Nella prima la scelta dei gruppi si fa sulla base delle referenze e dei volumi di affari. Non si tratta di criteri restrittivi come in Italia: la scelta di almeno un architetto giovane, senza referenze o con volume di affari inadeguato, è consigliata.
I candidati ammessi a concorrere nella seconda fase – da 3 a 6 secondo l’importanza del lavoro – devono produrre un progetto di massima. Gli sconfitti sono comunque indennizzati.
Questo meccanismo ha permesso per anni ai piccoli studi di accedere agli incarichi in caso di vittoria o, comunque, di finanziarsi e di esistere.
E poi, mi sembra, i concorsi siano puliti…
L’anonimato, quasi sempre rispettato, lascia poco spazio alle forme di cooptazione e ai favoritismi nostrani, cose molto lontane dalla mentalità di un funzionario pubblico francese.
Al nostro studio è capitato di vincere concorsi in luoghi sconosciuti e di perderli in città di cui conoscevamo vita, morte, miracoli e santi in paradiso…
Da qualche anno anche la Francia non è più la meta preferita degli architetti in cerca di fortuna. è una sensazione giusta o sbagliata?
È l’effetto della crisi economica. Ormai anche i progetti a budget medio-basso sono diventati terreno di caccia per i grandi studi. Durante la prima fase di un concorso ci è capitato di esaminare, in qualità di giurati, più di 300 candidati per dei progetti di
3 milioni di euro di lavori. Naturalmente, in queste condizioni, è impossibile operare delle vere e proprie scelte. Ci si affida a qualche pre-selezione realizzata dal cliente o molto più semplicemente si va a caso pescando nel mucchio.
Molti vostri lavori sono impianti sportivi. Non è un po’ colpa e merito del sistema concorsuale francese che spinge i progettisti alla specializzazione?
Certamente, è il ruolo delle “referenze” nella scelta dei candidati a un concorso. Si tratta di un’interpretazione un po’ cartesiana delle regole che corrisponde alla volontà di introdurre nella selezione dei candidati criteri il più possibile oggettivi che permettano di mettersi al riparo dai possibili ricorsi e di orientarsi all’interno della giungla dei 300 candidati. È inutile spiegare il perché una regola di questo tipo non voglia dire nulla e non sia garanzia di qualità o competenza.
Cosa è oggi, secondo voi, la sostenibilità? Quanto ne tenete conto nei vostri progetti?
Fa parte degli obiettivi che ci poniamo ma l’importante è non farne una guerra di religione. Anzi, diciamo che nei confronti di termini come “sostenibilità” ed “ecologia” bisognerebbe adottare un sano principio di precauzione, una forma di ecologia del pensiero. Ci sarà molto lavoro per gli architetti nei prossimi anni quando dovranno ristrutturare questa miriade di “thermos” iper-isolati che stiamo costruendo e i loro sofisticati impianti tecnologici. In Francia i regolamenti in vigore fanno riferimento a parametri e calcoli sempre più sofisticati e incomprensibili. Gli edifici vanno verso una sempre maggiore complessificazione i cui benefici in termini energetici sono irrisori soprattutto se rapportati alla scala dell’edificio e alle risorse necessarie per la manutenzione nel corso degli anni.
Quali accorgimenti energetici utilizzate? Quanto incidono sulla forma dell’edificio le scelte legate al risparmio energetico e alla sostenibilità?
Non ci sono dei veri e propri accorgimenti energetici o comunque delle ricette preconfezionate. In Francia gli obiettivi minimi da raggiungere dal punto di vista energetico sono ormai fissati per legge. Alla domanda del permesso di costruzione, le prestazioni energetiche dell’edificio devono essere già dichiarate e certificate. Controlli sono effettuati una volta terminato l’edificio. Ci piacerebbe per principio, come sfida progettuale, che questi parametri siano raggiunti facendo leva sull’intelligenza del progetto piuttosto che ricorrendo a espedienti di tipo tecnologico: un buono orientamento, una buona circolazione dei flussi naturali d’aria, una buona “respirazione” dell’edificio. Ci piacerebbe inoltre che il funzionamento energetico dell’edificio sia evidente, comprensibile a tutti, che non ci sia bisogno di un libretto d’istruzioni per far funzionare l’edificio. Non bisogna mai dimenticare di mettere l’uomo al centro della progettazione, un bow-window e una centrale di trattamento dell’aria non sono la stessa cosa per un abitante.
Il rapporto con il contesto, sino a che punto è rilevante nei vostri progetti? Ci puoi fare qualche esempio?
Il nostro modo di progettare è il risultato dell’interazione di tre elementi: un contesto, un programma funzionale e un concetto. Senza uno di questi tre ingredienti siamo ostaggio della sindrome del foglio bianco. Non pensiamo mai al contesto come a qualcosa di statico al quale adattarsi o quando si traduce nell’auto-imposizione di una serie di regole formali o compositive. Di un contesto ci interessa capire la sua struttura intima, il suo DNA, il modo in cui può evolvere e la sua capacità di adattarsi ad essere fabbricato o modificato.
Avete mai pensato a lavorare in Italia? Quali sono le maggiori difficoltà che si incontrano nel nostro Paese?
Certamente, qualsiasi architetto che vive, lavora e costruisce all’estero sogna un giorno di farlo nel proprio Paese. Malgrado tutti i discorsi, non si può sfuggire alle proprie radici. Naturalmente ci abbiamo provato, e ogni volta ne siamo usciti con un senso di frustrazione crescente. Almeno questa è la nostra esperienza…
A Parigi c’è una nutrita comunità di studi italiani. Avete mai pensato di lavorare insieme a qualche progetto o a qualche iniziativa comune?
L’architetto è per sua natura profondamente individualista. A questo si aggiunge forse la nostra cultura latina con il mito romantico dell’autore solitario. Il miglior modo per perdere un amico architetto è lavorarci insieme. Per quanto riguarda le iniziative comuni ci stiamo pensando e in futuro potrebbero esserci delle novità.
Le istituzioni pubbliche italiane presenti in Francia supportano voi progettisti italiani, aiutandovi a farvi conoscere meglio dal pubblico francese?
No, mi è capitato di assistere a seconda delle convenienze a due tipi di attitudini opposte. Noi, architetti emigrati, possiamo essere considerati come degli architetti ormai stranieri, quindi non rappresentativi della cultura italiana o al contrario come dei rappresentanti del made in Italy vincente.
In entrambi i casi, visti gli effetti prodotti, mi sembra che la migliore soluzione sia che le istituzioni facciano quello che hanno sempre fatto cioè ignorarci.
Qual è il progetto al quale siete più legati? Non deve essere necessariamente uno realizzato…
Si resta legati un po’ a tutti i progetti, anche a quelli mal riusciti. Ogni progetto ha una storia e rappresenta un momento particolare della propria vita. Fra i progetti realizzati: sicuramente il palazzetto dello sport di Deauville. La bassa Normandia è bellissima: prendere il treno la mattina presto o le giornate primaverili ed estive trascorse al cantiere di fronte al mare rimangono dei ricordi indelebili. Fra quelli non realizzati: un concorso recente a cui abbiamo partecipato ad Albino in provincia di Bergamo. Bergamo è la città di mio padre dove ho un piccolo appartamento che rappresenta ormai il mio unico legame con l’Italia. In più il progetto era bellissimo e rappresenta la summa di uno dei principali filoni di ricerca dello studio: il lavoro sul limite, sulla frontiera tra l’architettura e il paesaggio.
La rivista sulla quale uscirà questa intervista è un progetto editoriale di Kerakoll. C’è un prodotto edilizio che vi piacerebbe che fosse scoperto o inventato e poi messo sul mercato da un’industria come la loro?
Tenuto conto della specificità della produzione Kerakoll, guardiamo a due possibili direzioni verso cui sviluppare la ricerca. Verso sistemi con isolamento esterno con intonaci e vernici isolanti che permettano una libertà di tessiture e colori molto più ampia di quella consentita oggi dai prodotti in commercio. Per il futuro lo sviluppo di intonaci e vernici viventi che interagiscano e comunichino con l’ambiente che li circonda, con la luce, il clima, il livello di inquinamento, magari sfuggendo anche al controllo del progettista.
Progetti per il futuro?
Riuscire a costruire nel mio Paese e soprattutto conservare sempre la passione per questo mestiere.



