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Un nuovo Rinascimento per le città italiane

È necessario pensare un piano efficace di rilancio dei nostri centri urbani perché tornino a essere esempi di eccellenza e culle di cultura di livello internazionale. È quanto auspica Paolo Buzzetti, presidente Ance.
di Luigi Prestinenza Puglisi

Una tua autopresentazione in poche righe…
Sono romano, sposato e ho quattro figli. Mi sono laureato in ingegneria idraulica, amo il mare e sono un appassionato di storia. La mia è un’azienda familiare cui sono legati molti interventi importanti per la riqualificazione e la ristrutturazione di edifici storici e monumentali di Roma. La mia esperienza associativa è iniziata tanti anni fa quando insieme a un gruppo di amici imprenditori ho creato il gruppo giovane dell’Ance. Poco dopo sono stato eletto capo della sede romana dell’Ance (Acer), poi sono stato nominato vicepresidente nazionale con delega alle opere pubbliche e in seguito presidente nazionale.

Vuoi spiegare brevemente ai nostri lettori in cosa consiste il tuo lavoro di presidente dell’Associazione Nazionale dei Costruttori?
Si tratta di un ruolo di grande responsabilità e che assorbe molta parte delle mie energie. Lo sforzo dell’Ance e il mio personale è di utilizzare tutti gli strumenti e i canali possibili per portare avanti le istanze delle imprese strozzate da una crisi economica senza precedenti e messe ancora più in difficoltà dalla mancanza di liquidità dovuta ai ritardati pagamenti della PA e al credit crunch delle banche.

Un’opera che, come costruttore, avresti voluto realizzare.
Proprio per la mia formazione, ma anche per la mia passione per l’acqua in tutte le sue forme e i suoi stati, mi sarebbe piaciuto realizzare una diga. Un’opera davvero affascinante sia dal punto di vista tecnico che sul piano sociale.

Trovi la lampada di Aladino e hai a disposizione tre desideri. Diccene almeno due, il terzo può rimanere privato.
Innanzitutto vorrei un nuovo Rinascimento per le città italiane. Abbiamo i centri storici più belli del mondo, ma spesso l’incuria e la mancanza di manutenzione li rendono poco attraenti e poco vivibili. È necessario pensare un piano efficace di rilancio dei nostri centri urbani perché tornino a rappresentare centri di eccellenza e culle di cultura di livello internazionale. Si può fare mettendo insieme le energie pubbliche e quelle private ma serve una strategia nazionale che finora, se si fa eccezione per qualche intervento in tal senso messo in campo dal vice ministro Ciaccia, è mancata.
Un altro desiderio, questa volta personale, è quello di poter sciare su tutte le più belle piste del mondo. Amo la montagna e appena posso scappo per fare due curve ad alta quota, ma negli ultimi tempi è sempre più raro che ci riesca…

In questo momento l’edilizia è in crisi. Alcuni dicono che si è costruito troppo, i prezzi delle case non sono proporzionati ai redditi, c’è invenduto ed è scoppiata la bolla immobiliare. Altri dicono che è colpa della tassazione e dell’IMU… Tu cosa ne pensi?
Penso, anzi sono convinto, che nel nostro Paese la bolla immobiliare non c’è stata e non ci sarà. Non abbiamo, infatti, un problema di domanda: i dati mostrano che c’è ancora un fabbisogno insoddisfatto di circa 600mila abitazioni. A essere crollato è invece il numero dei mutui erogati dalle banche. Un calo che ha ulteriormente indebolito il settore, già messo in ginocchio dai mancati pagamenti della PA e dal taglio degli investimenti pubblici. Poi un’ulteriore aggravante è stata l’introduzione dell’Imu, che ha contribuito a fare della casa, il più importante rifugio degli italiani, il bene più tassato. Ma le soluzioni esistono. Noi, come Ance, abbiamo avanzato una proposta concreta, un “piano salva-casa”, per riattivare il circuito del credito e poter dare un’abitazione anche alle fasce deboli della popolazione puntando sul coinvolgimento degli investitori istituzionali.

Cosa dovrebbe fare il governo per incentivare la ripresa edilizia? A proposito, le detrazioni per l’edilizia stanno funzionando?
I tre impegni più urgenti sono sicuramente lavoro, pagamenti della PA e credito. Bisogna tornare a investire per arginare la grave emorragia occupazionale, che solo tra costruzioni e indotto ha fatto perdere oltre mezzo milione di posti di lavoro, sostenere le famiglie nell’acquisto dell’abitazione, rimettere in sesto le nostre città, cominciando da scuole e ospedali. È necessario in poche parole avere la capacità di guardare al futuro, con politiche che facciano leva sugli investimenti che più di tutti possono creare occupazione e avere ricadute positive sull’economia. In questo senso molta importanza hanno le detrazioni per le ristrutturazioni e il risparmio energetico, che possono contribuire in modo decisivo alla rigenerazione del tessuto urbano italiano e sostenere, com’è accaduto in questi anni, l’edilizia e la filiera del settore.

Oggi per costruire un’opera pubblica servono più di dieci anni, a volte non ne bastano quindici. Perché ci siamo ridotti così male?
I tempi di realizzazione delle opere in Italia sono effettivamente eccessivi e questo è sicuramente uno dei principali ostacoli al recupero del nostro gap infrastrutturale rispetto agli altri paesi europei. Da un monitoraggio che abbiamo effettuato su circa 200 interventi, emerge una preoccupante lentezza in tutte le fasi di realizzazione di un’opera. Servono, ad esempio, circa quattro anni e mezzo per completare la progettazione di lavori d’importo inferiore ai 50 milioni di euro e quasi sei anni per le opere d’importo superiore. Le maggiori difficoltà non riguardano tanto la redazione del progetto quanto il processo autorizzativo e sono legate alla definizione e condivisione delle priorità, al reperimento dei finanziamenti e ai tempi lunghi della burocrazia, tra Conferenza dei Servizi, pubblicazione del bando, svolgimento effettivo della gara. La ricerca ci ha offerto spunti interessanti di riflessione sia sulla fragilità del sistema di realizzazione di opere infrastrutturali sia sui possibili correttivi da apportare al quadro normativo e ai comportamenti delle amministrazioni pubbliche, degli operatori del mercato e dei cittadini, da porre alla base di un percorso per l’efficienza. Nella definizione di questo percorso è di fondamentale importanza la questione del consenso tra enti e popolazioni locali rispetto all’opera da realizzare. Ricostruire il dialogo è senz’altro la sfida più difficile da affrontare in questi mesi ma è anche un’azione necessaria che può permettere di segnare una svolta nella storia e nella cultura italiana del “fare infrastrutture”.

La sostenibilità può essere un buon business per i costruttori? Quali interventi, tra quelli che hanno una buona ricaduta ecologica, vedi più fattibili oggi?
La sostenibilità è il futuro dell’edilizia. Il mercato delle abitazioni efficienti sotto il profilo energetico è in espansione perché i cittadini sono più sensibili a questi temi. Non a caso in questi duri anni di crisi per il settore, gli interventi per il recupero abitativo sono gli unici a non avere segno negativo. Avere una casa in classe A adesso fa la differenza e costituisce un valore aggiunto per i proprietari. Le imprese stanno cogliendo questa sfida perfezionando la tecnologia a disposizione per meglio rispondere alle nuove esigenze del mercato. Un grande impulso a questa rivoluzione l’ha data, come accennavo, la detrazione fiscale del 55% prevista per gli interventi di riqualificazione energetica degli edifici. Per questo è importante che il nuovo governo si decida a renderla strutturale. La riqualificazione energetica degli edifici pubblici e privati, quindi, sarà la vera sfida ecologica dei prossimi anni.

Secondo te c’è ancora spazio per nuove costruzioni o ci si muoverà sempre di più verso la riqualificazione dell’esistente?
L’obiettivo per il futuro è di rigenerare le nostre città senza consumare nuovo suolo, puntando perciò alla riqualificazione dell’esistente sotto il profilo della sicurezza, del risparmio energetico, della sostenibilità. Qualcosa comincia a muoversi anche in Italia, grazie al Piano Città varato dal governo che, su nostra sollecitazione e grazie alla collaborazione delle amministrazioni pubbliche, prevede interventi di riqualificazione. Questo non significa che non si costruiranno più nuovi prodotti, perché laddove non è possibile riqualificare devono trovare spazio gli interventi di demolizione e ricostruzione, come già da qualche tempo avviene in Europa, in una logica non solo di sostituzione del singolo edificio, ma di recupero di ampie parti della città. Il nuovo però deve essere efficiente, sostenibile e di alta qualità.

Dacci, da costruttore, tre idee per rendere più intelligenti le nostre città.
Per prima cosa recuperare gli immobili pubblici fatiscenti, che per la loro missione al servizio dei cittadini devono essere esempi di efficienza e qualità. Poi sfruttare tutti gli strumenti a nostra disposizione, sia tecnologici che normativi, per ridurre gli sprechi energetici degli edifici e trasformarli tutti in classe A. Terzo obiettivo una mobilità davvero sostenibile, che potrebbe essere ottenuta ricompattando le città che si sono eccessivamente dilatate. Questo significa, ad esempio, portare le metropolitane in tutte le periferie, potenziare le piste ciclabili, sviluppare la digitalizzazione dei mezzi di trasporto.

A tuo parere, perché le città in cui viviamo sono così brutte? è colpa degli architetti, dei politici, dei costruttori o di noi cittadini?
E se la colpa fosse anche degli urbanisti e di certe scelte indotte da norme nazionali, regionali e comunali? Una parte di responsabilità, più o meno in misura pari tra loro, è ovviamente anche di tutti i soggetti che tu hai indicato, ognuno per il proprio ruolo: da chi si occupa della pianificazione, alla progettazione, alla costruzione, per finire alla conservazione delle nostre città. Le carenze riguardano, insomma, tutto il sistema: un sistema troppo spesso abituato a non assumersi responsabilità più che a governare responsabilmente il territorio. Questo significa che molti professionisti capaci non riescono a trovare i giusti sbocchi lavorativi, che costruttori bravi e coraggiosi non riescono a svolgere al meglio il proprio lavoro. Significa porre il problema della qualità urbana ai margini della nostra società. E invece la vera sfida è di governare la città e la sua perenne trasformazione nel segno della qualità e della sostenibilità, senza illudersi di arginarla. Questa illusione è all’origine dell’abusivismo, dei conseguenti condoni e dello scempio che è stato fatto del nostro territorio. Tutti fenomeni che non hanno nulla a che fare con la qualità.

È possibile pensare a una legge che stimoli la produzione di edifici di maggiore qualità magari valorizzando i concorsi di architettura? A proposito, tu ci credi ai concorsi di architettura?
In realtà una proposta del genere è già stata presentata in Parlamento ma non ha poi avuto seguito. Il problema sta negli obiettivi di medio-lungo termine che si pone la legge. La qualità dell’architettura e del progetto devono essere gli elementi base, gli emblemi di un provvedimento di questo tipo. Una legge efficace dovrebbe riuscire, innanzitutto, a coniugare crescita e qualità, definire regole chiare e precise, premiare gli interventi migliori, favorire processi virtuosi di concorrenza. In questo senso lo strumento dei concorsi credo possa essere di grande aiuto e d’importanza strategica. Ma, ovviamente, i concorsi vanno inseriti in un processo chiaro, concreto ed efficiente. Troppi concorsi finiscono nel nulla, troppi mancano clamorosamente il bersaglio, con un grande dispendio di energie e risorse. Responsabilità, trasparenza, concretezza sono alcune delle parole chiave su cui si gioca questa partita, che è fondamentale per valorizzare la cultura architettonica e migliorare la qualità delle città.

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